Un anonimo
consiglia di fare come l’albero che cambia le sue foglie e conserva le sue
radici. Per lui si possono cambiare visioni o dogmi ma mai i suoi principi. Per
le specie sempreverdi, come quella dell’olivo, si può pensare che questo
consiglio sia davvero utile?
La distesa
grigio verde d’olivi, il reale tempio di Minerva, è parte della famiglia tipo
d’un salentino che in essa, oltre ai fermi principi, rinviene qualcosa di più
grande, anzi, oseremmo dire, d’infinito.
Tra gli
affetti più cari la pianta monumentale, posta dal nonno del nonno, su quel
preciso luogo, probabilmente, corrisponde a qualche briciolo luminoso
dell’universo, milioni di anni luce distanti da noi, così come, un tempo, alcuni
monumenti lo furono per altri popoli.
Non è un
caso che le mappe che dirigono il cammino si chiamino proprio “piante”, come
non lo è che i salentini si ritrovino, ancora oggi, entro le cosiddette “finite”
per assumere cuoio e rabbuffi dei loro amari alberi che tanto finiti non sono e
non solo per coltivarli e sostenerli.
A questo
punto, non è arduo immaginare il modo come un contrafforte radicale si ancori
al suo spazio e intrecci il suo nerbo con quello del suo vicino; per una
famiglia salentina, questo legame, rappresenterebbe un’origine, una continuità
e un valore che va oltre qualsiasi archivio conosciuto.
L’albero del
monaco Pantaleone del mosaico di Otranto è anche quello della vita; è una delicata
cronistoria, adatta per ogni ramo, per ogni stagione o, semplicemente, per le
nostre piccole faccende quotidiane.
Il disegno
dell’arte musiva regge le colonne di un tempio cristiano ma il suo vero significato
vaga oltre ogni credo possibile. L’impero ottomano, sul sacco di Otranto, certamente,
aspirava a conquistare sopratutto quei magnifici patriarchi e il martirio successivo
separò quel popolo in indomiti e sottomessi.
I primi,
purtroppo, finirono racchiusi, con le loro spoglie, tra le teche del loro
tempio; i secondi, invece, ricevettero gli uliveti da curare, e con essi ereditarono
poi, purezza e bellezza, quegli attributi propri della loro divinità perduta.
Senza quell’albero,
mai soggiogato, probabilmente, non avremmo mai indossato un cuore per raccontare
così bene la nostra terra. Con quelle radici si restituisce il passato e si fondano,
i principi e lo stile dell’umanità salentina.
L’olivo è un
evento che celebra il mito di Atena, l’onnipresente dea madre, eletta da Zeus,
sulla proposta del suo borioso concorrente Poseidone, una saga tipicamente
mediterranea, marcatamente salentina.
Nel Salento,
l’olivo è anche quest’andirivieni di bei racconti, dei ghirigori di leggende
che con la sua intesa radicale si attorce fin sotto le ciglia delle sue umili
dimore, sotto una pezzuola greca annodata al mento, intorno a pupille vispe e
brune, come olive mature appena raccolte.
Al popolo
salentino è perfino concesso di ruzzolare tra le cavità di un olivo ed entrare
gentilmente nel ventre del suo tronco, sentirsi protetto per qualche attimo e
nello stesso tempo, isolarsi distante dal viavai corrente, aspro e
indifferente.
Il passaggio
tra le fessure del suo legno è una breve danza, una rappresentazione estratta
dalla viva voce popolare e spesso usata come
auspicio di fertilità e abbondanza o per allontanare gli spiriti poco benevoli.
Solo con
questa esperienza puoi sentire lo stupore di attraversare i ritmi di un torace
legnoso e poi intendere come sia facile accedere in una grandezza che spanna un
altro mondo possibile, così vicino, così a portata di mano, a pochi passi dalle
nostre preziose r-esistenze.
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