venerdì 3 marzo 2017

La ozza

foto di M. Ciccarese
La donnina di terracotta fa bello sfoggio di sé nel bel mezzo della fiera d’ottobre; la pelle d’ocra smaltata, la bocca grossa e circolare, due nerbi d’asola sui fianchi, un corpetto panciuto e un rubinetto al posto dell’ombelico.

Il suo creatore, l’ha condotta fin qui trasportandola sul suo pittoresco sciarabba, adagiandola delicatamente tra le altre mercanzie spera adesso di venderla ai viandanti come un pregiato monile per ville e masserie.

Il terracottaio ha utensili per ogni tipo d’impiego; dalla “cofana” alla “limmura”, dallo “mbile” alla “ucala”, dalla “pignata” alla “taiedddrha” prodotti che purtroppo il progresso ha mortificato gradualmente con l’introduzione di altri derivati.

La “ozza” ultima discendente delle giare greche era la più impiegata dalle cantine, prima dell’avvento delle botti. La sua capienza, corrispondeva a cinque “uzzeddrhe” da cinquanta litri, antenate delle odierne damigiane, manteneva i liquidi in buone condizioni, si acquistava negli anni trenta con poco più di venti lire.

Un recipiente dalla tornitura affascinante e non semplice, una mescla di argille e di elementi naturali combinati dalla passione e dall’esperienza di quei pochi artigiani rimasti ancora a modellare.

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