ph di Mimmo Ciccarese |
Quando si manifesta il fiore bianco e rosa del cappero, si esprime meraviglia con il suo stesso etimo. Il suo nome pare derivasse dal greco kapparis, dalla radice che si avvicina a quello con cui si designa la brulla isola di Cipro dove la pianta è molto diffusa.
Con qualche baratto di vocale il curioso appellativo potrebbe derivare dalla pronuncia orientale persiana di Al-Qabar che si riversa in Europa attraverso gli spagnoli che lo chiamano alcaparra, con i francesi che invece lo chiamano caprier e con i siciliani e salentini con quello di chiapparo.
Il vello e le protuberanze dei frutti della pianta rasentano l’idea che anche il nome della capra comune derivi dalla stessa radice. Le cosiddette protuberanze altro non sono che i filamenti staminali divaricati della magnifica e inaspettata comparsa fiorile e l’eufemismo del titolo si potrebbe tranquillamente giustificare con la colorita espressione.
Il cappero o capparis spinosa, appartiene alla famiglia delle capparidace, cresce spontaneo tra i climi di pianura a quelli montani nell’area mediterranea; ha un energia germinativa che si riscontra tra le fessure dei muri più esposti al sole, su ruderi e castelli, quando è condotto da gechi e colombi. Il frutto è una bacca carnosa che quando è matura si apre e palesa una miriade di semi immersi nel suo nucleo polposo rosa.
Quando i boccioli del fiore, detti cucunci, sono ancora chiusi e verdi si raccolgono, è il momento in cui si raduna la veemente capparutina, un flavonoide che deve essere deamarizzato in salamoia, posto sotto sale marino per quasi due settimane prima del consumo.
Il certosino e solerte rastrellamento della pianta avviene, a mani nude, tagliando con l’unghia del pollice il tenero caule, in prossimità dei nostri cucunci, preferibilmente nei tardi pomeriggi estivi quando l’aria si raffresca e la pianta si predispone a questo rituale.
Di ottimo valore è il cappero dell’isola di Pantelleria, un prodotto regolamentato dai disciplinari ministeriali di produzione tipica e dalle tradizioni alimentari del suo luogo che aggiunto alla leggendaria insalata pantesca ne fanno un piatto dalle sorprendenti virtù.
Insalata Pantesca (dose per single)
Un piatto dolce, vivace e veloce che si trama almeno mezza giornata prima ammollando nell’olio extravergine di oliva i fatidici capperetti di Pantelleria dopo averli dissalati e sbriciolati. Il tempestivo strizzamento del cappero è un intervento che richiede doti raffinate da chef, una certa manualità che deve onorare impercettibili regole. Si allessa la patata, così com’è, in una soluzione di acqua e sale, si sbuccia e si affetta. Subito dopo si taglia una cipolla, possibilmente di Tropea, a rosette sottili e il pomodoro di Pachino a bulbilli, si scolano le olive nere denocciolate e i capperi, si mescola e si insaporisce con olio extra vergine d’oliva, con un presa di origano, qualche tenera fogliolina di basilico e un pizzico di sale e pepe.
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