Ci sono movimenti che salvaguardano la biodiversità con la
stessa energia germinativa che erompe da un seme. Proviamo a immaginare questa
forza ordinaria come se fosse un pensiero orientato alla difesa di qualcosa di
buono e ci accorgeremmo che ogni pianta che moltiplica i suoi frutti diventa fonte
preziosa e bene per la comunità.
Le denominazioni comunali nascono così, con l’espressione, la sensibilità e l’esperienza del loro produttore. Il produttore spesso senza rendersene conto riproduce, se pur su piccola scala, quest’energia e accompagna il sapere ereditato dai suoi antenati.
Questo succede in quelle comunità che si riscoprono importanti solo per aver in dote le caratteristiche territoriali e un modo di coltivare unica. Facciamo degli esempi? Il pisello nano e quello riccio di Sannicola o quello secco di Vitigliano, la fava “cuccia” di Zollino o il cece nero di Muro leccese.
Si tratta di varietà autoctone, straordinarie per peculiarità nutritive, essenze mediterranee ed esempi d’umiltà e dedizione. Quel piccolo moto dello scambio dei semi, traffico felice di aspettativa, la forza di cui parlavamo, è diventato un atto da proteggere, ormai sotto pressione dall’ondata dei novel food.
Alzare barricate di fave e piselli, quindi, con tutta la loro cultura rurale con un primo di “piseddrhi cuetti a pignatu cu li muersi” addolcito da spezie orientali, costa veramente poco. Dedicate i morsi successivi a quelle unioni di “faenette e cicore mische” o di “fae cu le scarcioppule ndilissate” e poi ditemi se non vi siete sentiti un attimo ricco e fiero.
Si dice che la fava di Zollino debba avere circa cinque semi per ogni baccello e deve essere lievemente più appiattita rispetto alle altre, deve saper cuocere per lungo tempo senza rammollire la sua originalità. Sono piccole osservazioni che si amplificano all’assaggio, un seme che batte come il cuore sul torace salentino, luogo di stoccaggio di una nuova energia per favorire le nostre comunità.
È senza dubbio una scelta etica gradevole ed emozionante quella di seminare e raccogliere sulla propria terra d’origine.
Le denominazioni comunali nascono così, con l’espressione, la sensibilità e l’esperienza del loro produttore. Il produttore spesso senza rendersene conto riproduce, se pur su piccola scala, quest’energia e accompagna il sapere ereditato dai suoi antenati.
Questo succede in quelle comunità che si riscoprono importanti solo per aver in dote le caratteristiche territoriali e un modo di coltivare unica. Facciamo degli esempi? Il pisello nano e quello riccio di Sannicola o quello secco di Vitigliano, la fava “cuccia” di Zollino o il cece nero di Muro leccese.
Si tratta di varietà autoctone, straordinarie per peculiarità nutritive, essenze mediterranee ed esempi d’umiltà e dedizione. Quel piccolo moto dello scambio dei semi, traffico felice di aspettativa, la forza di cui parlavamo, è diventato un atto da proteggere, ormai sotto pressione dall’ondata dei novel food.
Alzare barricate di fave e piselli, quindi, con tutta la loro cultura rurale con un primo di “piseddrhi cuetti a pignatu cu li muersi” addolcito da spezie orientali, costa veramente poco. Dedicate i morsi successivi a quelle unioni di “faenette e cicore mische” o di “fae cu le scarcioppule ndilissate” e poi ditemi se non vi siete sentiti un attimo ricco e fiero.
Si dice che la fava di Zollino debba avere circa cinque semi per ogni baccello e deve essere lievemente più appiattita rispetto alle altre, deve saper cuocere per lungo tempo senza rammollire la sua originalità. Sono piccole osservazioni che si amplificano all’assaggio, un seme che batte come il cuore sul torace salentino, luogo di stoccaggio di una nuova energia per favorire le nostre comunità.
È senza dubbio una scelta etica gradevole ed emozionante quella di seminare e raccogliere sulla propria terra d’origine.
Nessun commento:
Posta un commento