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martedì 24 dicembre 2019

L'albero di Natale: storia di un culto nato ad Otranto?


Il culto degli alberi ha un ruolo importante nelle culture e nelle religioni di tutto il mondo! Esistono su quest’argomento innumerevoli notizie o leggende. Gli alberi entrano in questo modo a pieno titolo tra gli elementi spirituali oggetto di venerazione.

Molti uomini hanno sempre creduto che gli alberi fossero governati da spiriti e divinità: tra i primi furono i greci che adoravano la quercia come dimora di Zeus e la consideravano, come l’ulivo, pianta il cui sacrilego atto di sradicarlo era punito severamente.

Per alcune popolazioni africane, nella creazione del mondo, l’albero è protagonista perché contiene la forza spirituale e materiale di un dio arcaico che si manifesta a tutti gli altri esseri proprio attraverso radici, foglie e rami. È consuetudine per alcuni popoli africani radunarsi sotto la chioma di alberi sacri per prendere decisioni d’interesse collettivo.

L’albero è conoscenza, sopravvivenza e nutrimento per ogni popolo. Il legame con gli alberi era per i Celti così forte tanto che si sentivano parte di essi. Per questi popoli, l’albero era il collegamento tra terra e cielo, un riferimento cosmico che appellava perfino i cicli lunari, i luoghi e le famiglie.

Quando le missioni di altre religioni iniziarono la loro opera di conversione su questi popoli, in nome di decisioni supreme, per impedire il perdurare dei loro culti arborei, rasero al suolo le loro foreste sacre. Si può facilmente immaginare cosa sarebbe accaduto dopo, a coloro che, in segno di venerazione portavano offerte agli alberi o chiedevano protezione per i propri familiari o per i propri beni.

Singolare è la storia di San Martino vescovo, che con il grado di difensore di tali editti, si fece legare a un immenso pino da abbattere per sostenere e comprovare la virtù della sua fede alle popolazioni pagane; dopo il suo segno di croce, l’albero cadde graziandolo e il miracolo favorì le conversioni.

Le storie di alberi tagliati e di proclami che proibivano i riti pagani si susseguirono in tutta Europa durante tutto il medioevo. Emblematici furono i tagli d’albero eseguiti per sancire la fine o l’inizio di nuove epoche. La storica decisione nel 1188 di Goffredo di Buglione, feudale della prima crociata, di far tagliare un olmo a Gisors alla presenza di due sovrani decretò la fine di un’alleanza e l’inizio di un dissidio. Gli eroici abitanti di Capannori in Toscana salvarono l’ultrasecolare “quercia delle streghe”dalla scure nazista che la gradivano come legname; poi cittadini di ogni luogo in difesa di ulivi, querce, lecci, pini di carattere monumentale da ricorrenti minacce antropiche.

Non esiste simbolo più rappresentativo dell’albero per le festività di Natale. L’alberello del nostro focolare è un singolare documento di fede, certamente assorbito da primitivi simbolismi e antiche tradizioni.

La scelta di un sempreverde per celebrare una nascita, in grado di trasferire il messaggio d’immortalità e di rinnovamento era già diffuso tra i romani che ricorrevano decorando le loro case con coccarde di rami di pino. I druidi (dal gaelico querce) e i vichinghi , invece, per il giorno più breve dell’anno si auspicavano fertilità e rinascita vegetativa addobbavano i loro sacri abeti rossi con diversi frutti.Qui si presenta il confronto dell’albero natalizio con la mitologia nordica dell’albero cosmico detto Yggdrasill, albero invisibile e simbolico fonte della vita, origine della sapienza e dell’immortalità, simile a quello raffigurato nel mosaico del Duomo di Otranto, splendido esempio uscito nel 1165 d.C. per opera del monaco Pantaleone che era riuscito a ramificare natura e mitologia in una delle prime missive ecologiche che il Salento ricordi.
Klimt, L’albero della vita

Anche nella pittura G. Klimt con il suo “albero della vita” rievoca un riferimento alla naturale combinazione tra spirito e materia tramite l’amore e la conoscenza, mentre nella letteratura, H. Hesse, con la sua favola trasforma il protagonista Pictor, giunto nell’Eden, in albero, per descrivere e completare l’uomo con una metafora arborea.

Il termine albero della vita era menzionato nei riferimenti biblici della genesi e nell’apocalisse: “E in mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trovava l’albero della vita, che fa dodici frutti e che porta il suo frutto ogni mese; le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni”. Altri riferimenti si rintracciano sorprendentemente anche tra popoli egizi, assiri, mesopotami nel buddismo, induismo e nella cabalà ebraica.

Da qui potrebbe essere nata la tradizione dell’albero di Natale, che le prime missioni cristiane chiamarono “albero del paradiso” sul quale comparivano mele e ostie come simbolo di redenzione poi nel tempo sostituite da candele, frutta secca, dolci e doni vari.

I sempreverdi più utilizzati sono il peccio, il pino e l’abete, specie incensate dai colori intensi che dovrebbero essere, di rigore, veri e vegeti se si vuol dare significato e continuità all’allegoria cristiana.

Con un albero artificiale, quindi, non si avrebbe alcuna percezione; il senso della ricorrenza sarebbe relegata a effimero consumismo. Agli italiani pare incanti il falso albero, perché assicura la prontezza dell’installazione, risolve le gestioni economiche durante le feste e poi si può usare per più anni. In genere sono fatti in PVC, polietilene, derivati del petrolio, materie, spesso non degradabili, che in futuro dovrebbero finire in discarica.

Gli scandinavi hanno stimato e paragonato i consumi energetici e di produzione tra un albero vero e uno falso (anche utilizzati a lungo termine) dalle stesse forme e dimensioni ed hanno riscontrato che il primo ha un valore etico e ambientale cinque volte maggiore.

Procurarsi un albero vero da un vivaio specializzato rigenera la coltivazione della specie e favorisce l’assorbimento della CO2 dall’atmosfera durante il suo accrescimento.

È convinzione diffusa che gli alberi di natale provengano da deforestazioni e che ogni anno avvenga uno sterminio di alberelli; grazie ai controlli o alle certificazioni ambientali (Forest Stewardship Council) che garantiscono il rispetto e la conformità tecnica, si può stare tranquilli.

Ovviamente la preferenza di utilizzare alberelli autoctoni, acquistati da vivai locali (km 0), possibilmente a produzione bio, sarebbe una buona scelta e magari, dopo la festività, ripiantare gli stessi in habitat idonei, per contribuire a mitigare le cause della desertificazione.

Allora alla luce di queste considerazioni potremmo confermare che ogni albero, a prescindere dal suo rito, è certamente, un luogo di ricerca e di riflessione, una relazione di valori ed emozioni e di unione tra terra e cielo; ecco perché non dovrebbero essere mai tagliati. Questo potrebbe essere il primo augurio per il Natale.

venerdì 30 dicembre 2016

L'albero di Yule


Quando le radici di un albero in decadenza, diventano fragili, occorre camminarci su, in punta di piedi, con la dovuta delicatezza.

Quell’albero, seppur al limite del suo ciclo, può sempre farci apprezzare la forza essenziale presente nella sua ultima linfa. Senza quella linfa come farebbe un albero a vagire l’ultimo distacco?

Puoi girargli intorno al tronco, spiegandone ogni passo, seguendo l’ampiezza della sua proiezione sul suolo e poi raccontarlo con i battiti lenti delle stagioni.

In questo modo, ho scoperto, che basta contare sette piedi per poter marcare un punto cardinale sul cerchio della sua espansione epigea.

Con tale strategia potrei riconoscere il piglio di un albero mentre esegue i movimenti dell’universo; avere un istante per segnare una tacca sullo zenit del suo firmamento, ricevere l’ombra delle meridiane o addirittura riconoscerne la sua generosità.

Potremmo definire lo spazio e il tempo della sua romantica presenza. Potremmo annotare le sue coordinate per ritrovarlo facilmente insieme con gli altri, al nostro ritorno.

Così potrei percepire il suo stato e riferirlo al suo custode, perché possa poi descriverlo, classificarlo, difenderlo, adottarlo o chiamarlo semplicemente per nome.

Il fascino di questo regno inizia con le classi botaniche, con lo studio della sua anatomia, della sua fisiologia, quindi, dei suoi organi, delle loro funzioni o della sua vulnerabilità così simile a quella umana.

Si giunge così a riflettere al suo equilibrio funzionale, alla sua germinazione, al suo sviluppo giovanile fino a quello d’adulto che coincide con la fioritura e quindi con la riproduzione delle sue cellule.

Quando si tratta di ritagliare notizie, da una comunità arborea, per noi osservatori, è quasi un gioco da ragazzi. A volte, ricavi quelle informazioni cruciali che ti aiutano a capire le reali intenzioni di un amministratore sul destino di un’alberatura urbana.

In quei momenti, ti rendi conto che puoi fare qualcosa, come ad esempio, quello di vincolarsi a una pianta prima del suo atterramento senza passare da alcuna pedante supplica.

Le periferie sono espresse dagli alberi che delimitano le nostre speciali residenze. In alcuni paesi, ci sono evidenti fenomeni di desertificazione urbana; ti accorgi all’istante, che quella strana incuria degli alberi non è altro che un disegno voluto solo da quei pochi eletti.

Nonostante tutto, non dimentichiamo che oltre ai palazzi di tufo e calcestruzzo, alle discariche abusive e ai fumi molesti ci sono anche gli habitat delle biodiversità, delle foglie, dei nidi preziosi e silenziosi.

In questa terra è molto facile evadere per le campagne, percorrere olivi, tratturi e masserie, educarsi ambientalista, indossare uniformi e accorrere in loro difesa. Allontaniamoci un attimo dagli scalpitii cittadini per andare tra i boschi.

Le volpi, le api e gli uccelli selvatici si attestano sempre vicino alle fonti d’acqua, in quei microcosmi comunque favorevoli al mantenimento della loro specie.

Per loro è certamente meglio bere da un lago pulito che da una lurida pozzanghera di cemento.
Allora, quale migliore copertura di un grande albero che offre la vita?

Trapiantiamo alberi, quindi, in cerca di protezione, di frutti, d’aria pulita e reclamiamo, quegli alberi splendenti che ci hanno strappato per far posto a una colata di grigio bitume.

Quando ti sottraggono un albero, è come perdere quel nastro magnetico del motivo che rappresenta la colonna emotiva del tuo più dolce ricordo.

Eppure, sono quasi certo, che avrai inciso qualcosa sul suo robusto tronco, all’altezza del tuo cuore. Un giorno, chissà, ci chiameranno a piantare alberi anche sulle nuvole.

Le nostre prime umili dichiarazioni d’amore sono state scolpite sul torace degli alberi. L’albero esprime quella naturale unità che ricerchiamo con veemenza quando ci accorgiamo di non averla più. In nulla si crede quanto nell’unità.

Gli alberi si rispettano perché il loro corso è mediamente più lungo riguardo a quello di un essere umano. Gli alberi si rispettano perché hanno molte più storie da rivelare.

Settecento anelli fa, sulla Serra del Mito, nel Salento, cento cavalieri, si radunavano sotto l’ombra di una quercia di vallonea, per attendarsi e poi decidere dove andare.

A fine ottocento, ancor prima delle celebri lotte contadine, le quercete dell’Arneo, sarebbero state rifugio, per quei briganti-partigiani che reclamarono la sovranità a coltivare al nuovo latifondo emergente.
Come farebbe un bambino nella sera della vigilia di Natale, continuerei ad addobbare preferendo la tua quercia al comune abete artificiale di un focolare borghese.

Rimarrei ancora qui, ad associare a ogni suo ramo la presenza di ogni volto che dalla sua vetta ha ammirato la sua munificenza.

Sarebbe l’albero di Yule per le tradizioni precristiane dell’emisfero settentrionale, quali quelle celtiche e germaniche chiamando questa ricorrenza come solstizio d’inverno. Lo Yule doveva essere un giorno veramente speciale.

Ogni anno, prima dell’avvento cristiano, questi popoli riservavano tale periodo alle loro divinità.
Lo Yule, uno degli otto giorni solari, prendeva il nome probabilmente da Hiol (ruota) per il semplice fatto che si allineava a quel punto del moto circolare che si scopriva, come succede ancora, al suo estremo inferiore per poi iniziare la risalita sulla linea dell’orizzonte.

Un evento che dopo il cristianesimo si ripresenta, ancora oggi, con tutta la sua energia. Per i linguisti il nome dato dai germanici a quel 21 dicembre sembra avesse origini indo europeo, forse persiane, un nome che per islandesi e finnici indicherebbe anche il Natale.

Fu Gregorio Magno al tempo della conversione cristiana a surrogare per i popoli nordici il termine Yule con quello di Natale cercando di conservare integre molte loro tradizioni originarie quale l’uso decorativo del vischio o dell’agrifoglio. Con tale ricorrenza gli alberi riprendono la loro importanza in questo particolare momento, come essenza simbolica di fertilità, unione, persistenza e lungimiranza.

L’albero di yule si ripresentava anche come quello della fortuna e della ricchezza e conserva ancora analogie con l’albero cosmico di Ygdrasill che i celti rispettavano insieme al loro dio Odino. Non è un caso che il dio Odino fosse raffigurato come un uomo barbuto e giudizioso disposto a ricambiare di doni il suo popolo quando esso avesse nutrito il suo cavallo alato.

Una figura analoga certamente al nostro San Nicola Vescovo e poi al paffuto Babbo Natale che, all’opposto, provvede personalmente a sfamare le sue renne.

Un albero su cui i popoli pagani potessero appendere le loro campane che al loro movimento avrebbero risvegliato e richiamato gli spiriti e una stella a cinque punte sulla sua cima più alta, a rappresentare il pentagramma dei cinque elementi naturali non poteva non essere considerato oltre che prezioso anche supremo.

Per altre tradizioni, nel giorno dello Yule, si commemora la fine del re Agrifoglio pianta simbolica dell’anno appena trascorso per far posto a quello del re Quercia che esprime l'anno nuovo e decreta l’ascesa solare.

Con questo passaggio di regni dunque, lo Yule diventa un giorno così carico di simboli e magie tanto che nelle feste romane del Sol Invictus si usava vegliare dal tramonto all'alba seguente per accertarsi che il sole riapparisse ancora.

Un rito così rilevante anche per le donne celtiche che attendevano nell’oscurità l’arrivo dei loro uomini a portare la luce delle fiaccole incerate su sacri ceppi di quercia o frassino utile per accendere un grande fuoco simbolo di morte, trasformazione e rinascita allo stesso tempo.

Quello che più sorprende è che per ogni popolo, sia fosse, druidico, celtico, sassone, gaelico, slavo greco o romano questo giorno rappresentava la nascita di una divinità associata di solito al culto del sole, alla giustizia e al bene.