foto di M. Ciccarese |
Tra una cottura e l’altra i miei amici fornai, spaccano, strozzano o solcano gli ellissi caldi di pane per assegnarle due facce dissimili: un’inferiore piatta e compatta e l’altra porosa e corrucciata. Una salda struttura da ammorbidire in acqua per poco più due istanti prima di essere centellinata per bene se non si possiede la robustezza dentale di sgranocchiarla con un motivato ardimento.
Il suo etimo è un rebus, ma se paragono il termine del verbo fresare, conosciuto come quell’azione di sminuzzare o triturare le zolle di terra, posso ricavarne la somiglianza con quello della nostra frisa, verosimilmente proveniente dai richiami latini o addirittura cretesi.
Sono appelli scanditi nel passato dai ritmi lunari, quando il fornaio deliberava il giorno e l’ora precisa per preparare le "friseddrhe" in famiglia insieme alle "muddriche", pezzi di pane, che riunivano le famiglie.
Sono appelli scanditi nel passato dai ritmi lunari, quando il fornaio deliberava il giorno e l’ora precisa per preparare le "friseddrhe" in famiglia insieme alle "muddriche", pezzi di pane, che riunivano le famiglie.
Una tacca identificativa per ogni prodotto facilitava al panettiere la dovuta consegna delle calde friseddrhe su pianori di legno e protette da plaid di lana che limitavano l’indesiderato e repentino dissiparsi dell’umidità.
Le friseddrhe erano il pane che conduceva non solo contadini e pescatori, ma anche i crociati, in partenza per la guerra santa. Si tenevano in serbo per tempi lunghi legandole tra loro tramite cordoncini di fibra vegetale o adagiandole nelle stive in ampi orci di creta, chiamate capase, utili varianti della più conosciuta ozza.
Una frisella per ogni periodo, quindi, per qualsiasi nomade goloso, da gustare rigorosamente con le mani e da condire con cubetti e succo di pomodorino da serbo o da insalata, olio d’oliva, sale, capperi, origano e aglio nella versione tradizionale o con melanzane, cipolla, peperoni in quella “ncapunata”. Avanti Terra! può guidarvi in questa avventura.