con le donne che tagliano
e quei portatori con le pesanti tinozze
Io amo quell'uva che mio padre ha curato
con gli occhi arrossati dallo zolfo
e le mani azzurrate dal rame
ed amo la sua brina e il sole che l'asciuga
le diraspate e le grandi pesate
le acri bestemmie e le bastonate
Amo il mio vino, il mio unico figlio
ed odio i poeti che lo bevono e basta
Gli ultimi acini hanno la forma della luna di metà settembre e i tralci bruni ormai spogliati dai loro grappoli, riprendono a luccicare a quel sole tiepido di fine estate che decreta l’avvio della prima fermentazione.
Le ottime gradazioni zuccherine, di quelle in grado di stimolare il dialogo tra gli ambienti rurali sono il lieto risultato di tanti propositi intrapresi proprio con il favorevole risveglio primaverile. Quel “forte ribollir dei tini” diviene il testimone di quell’antica intesa tra quell’ipnotico tintinnare dei torchi pomeridiani e il frenetico scorrazzamento dei motocarri tra le contrade, colmi ancora d’odorosa uva.
Il conversare tra i villaggi non condivide più lo stato d’ansia di ante raccolto, quando pareva che agosto dovesse dimettersi dal 2016 con un inatteso temporale che avrebbe compromesso la produzione; scampato questo pericolo, i viticoltori, adesso, commenteranno qualcosa sull’avvenuto raccolto, quasi come se fosse diventato un robusto batter di calici sul loro stesso torace.
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foto di M. Ciccarese |
Questo è il momento in cui la densità e la temperatura del mosto sono suscettibili a imprevisti cambiamenti per cui lo sguardo del buon cantiniere deve essere davvero attento affinché le bucce dell’uva possano rilasciare e accordare le più eque tonalità al loro destino.
Gli antichi romani facevano coincidere il periodo di vendemmia con il terzo mese dell’anno, cioè con la fine di settembre, quando la maturazione delle più rustiche varietà giungeva lentamente; d’altra configurazione, invece, il calendario rivoluzionario francese che poneva il periodo della raccolta dell’uva con il primo mese dell’anno conosciuto appunto come “Vendemmiaio”.
Oggi, la maturazione dei vitigni si accelera per adattarla alle operazioni meccaniche e s’impiegano varietà precoci per ottenere rese produttive eccezionali, spesso, a scapito della qualità più ambita dai trasformatori.
A parere di molti, però, la vera rivoluzione dell’uva non è la vendemmia ma la fermentazione. La fermentazione è anche un formidabile viaggio che inizia con la comparsa nella polpa del soave fruttosio e finisce dove l’armonia dell’alcool si sposa con l’intensità degli aromi; un breve e svogliato percorso durante il quale le proprietà dei frutti si esprimono proprio con l’efficienza di una catena di reazioni successive alla torchiatura.
Il processo fermentativo è un’ordinaria simbiosi tra complessità naturali enzimatiche e lavoro umano; stadi fisico-chimici, speranze e ripartenze, che potrebbero raffigurare, con un gocciolo d’immaginazione, la grande pazienza di chi coltiva e s’impegna a tutelare e divulgare l’originalità del suo vitigno.
Sono movimenti a volte pigri, che partono da un parapiglia di muffe e batteri che senza concedersi un attimo di respiro convertono in energia gli zuccheri in altre utili essenze; è in questi attimi che nobiltà e grazia si differenzieranno nella corporatura di un buon calice.
L’evoluzione di un mosto scandita dall’andamento della stagione, dalla minuziosa cura, non rende mai con certezza il carattere di un vino.
Oggi, il cammino della classica vinificazione smarrisce il suo fascino proprio con la meccanizzazione dettata da certi mercati, che indirettamente, sottraggono le tecniche più remote e quindi il valido supporto delle maestranze qualificate; quella moltitudine di esperti ancora in grado di modellare la razionalità dell’agricoltura ai ritmi naturali.
Non descriveremo tutti i fraseggi di ogni stagione perché non basterebbero gli spazi disponibili, ma certamente avremo modo di difendere e tutelare un pensiero, la tecnica e la passione di vinificare così come si faceva una volta.
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